Giovane cronista tv, nella Milano dei primi anni ottanta, mi occupavo di operazioni di polizia: arresti, retate, perquisizioni, operazioni antidroga. Una mattina piovosa seguo gli agenti della mobile al parco Lambro. Quello che era stato il teatro del vecchio festival alternativo, musica, colori e speranze, quasi una "summa", e un addio, agli anni settanta, aveva lasciato il posto a desolazione e violenza. Tutti sapevano che era il più grande mercato di eroina a cielo aperto della città. Niente di strano che la polizia di tanto in tanto facesse una retata con telecamere al seguito per dimostrare almeno che si faceva qualcosa, anche se tutti sapevano che una volta finita l'operazione, tutto sarebbe ricominciato come prima. Così, mentre vedevo tossici e spacciatori portati via in manette e cercavo una chiave non banale per raccontare un fatto ripetitivo già visto mille altre volte, mi imbatto in un signore strano che guarda tutto con aria preoccupata. Gli chiedo chi è, mi dice che è don Mazzi, non lo conoscevo. Gli metto sotto la bocca il microfono. Quella che doveva essere una celebrazione un po' stanca di una retata diventa un atto di accusa: "Non basta arrestare –tuona il don- bisogna fare di più, togliere il parco agli spacciatori, dare speranza a chi ne è vittima. Io ne conosco tanti e soffro per loro". L'intervista, il grido di dolore inusuale, mischiata alle immagini crude di quella mattina piovosa (molti ragazzi venivano portati via in ambulanza tanto stavano male) suscita scalpore. Perfino un cronista pigro e cinico come ero io allora si incuriosisce per il progetto di don Mazzi: non rinchiudere le persone che si drogano e isolarle dalla società, ma metterle insieme e viaggiare. Era l'idea di Exodus, un'idea eccezionale. Il viaggio poteva essere fisico o anche solo spirituale, ma era movimento, fuga da quell'angoscia che spinge milioni di ragazzi nel disagio e nella droga.
Da allora don Mazzi ed Exodus avrebbero spiccato il volo: moltiplicazione dei centri, interventi pubblici, appoggio delle istituzioni. Ma per me rimane sempre quel prete in maglione preoccupato e solo, sotto la pioggia e senza ombrello, che guardava con angoscia dei ragazzi soffrire e si ribellava all'idea di delegare il problema droga a poliziotti e infermieri.

Antonio Di Bella