QUANDO LA GIUSTIZIA ESIGE CLEMENZA

18/11/2016

Ci sono nella vita drammi impossibili da accettare e credo impossibili anche da interpretare in modo tale da lasciarci la coscienza in pace. Perché fanno nascere una domanda sul filo del contronatura: l’amore può arrivare fino al punto di uccidere se stesso? E chi arriva fino a lì, può essere giudicato, punito, processato e, nonostante tutte le attenuanti, condannabile?
Credo e so di dichiarare una cosa che forse solo gente come me, che ha visto di tutto, soprattutto ha visto cose che mai avrebbe pensato possibili, sia nel nome dell’amore vero quanto nel nome di un altro tipo di amore, talmente devastato da trasformarsi in delitto.
So che la parola delitto richiama immediatamente sentenza, processo e pena. Ma in certe situazioni non credo che ci si debba fermare lì, inventando il minore dei mali. Possiamo accettare e credere che la vita può travalicare ogni tipo di vocabolario legalistico e ogni tipo di eccezione immaginata, ponendoci impotenti e quasi analfabeti a cospetto della storia.
Passo dai dubbi al caso specifico. Come verrà giudicato Pietro Spina, abitante di un paese del novarese, cinquantatreenne, rimasto vedovo e solo, per l’omicidio del figlio epilettico e autistico, incapace ormai di vederlo soffrire? Potremmo con facilità e leggerezza giustificare il tutto, sapendo che Pietro non era ancor riuscito a superare la grave depressione generata dalla morte della moglie? Oppure…
Abbiamo in questo ultimo periodo, letto più volte di fatti nei quali si abbinavano omicidio e suicidio. E, almeno per me, nonostante la “potenza” delle prove e delle cause, sono sempre stati difficili da capire, accettare e giudicare.
Questo caso, inoltre, ci sconvolge non solo per le ormai nauseanti titolazioni “uccide un figlio e tenta il suicidio” ma per i risvolti emozionali, dolorosi, patologici e drammatici che lo hanno determinato. Noi, poveri uomini, siamo contemporaneamente ciclopi e nani, capolavori di intelligenza, di saggezza, di creatività e insieme limitatissimi, spaesati, incapaci di sopportare le tragedi che la vita talvolta sembra concentrare, quasi distrattamente e ingiustamente su persone, città, famiglie, istituzioni.
Di Andrea e Pietro la gente racconta fatiche, dolori, aiuti, condivisioni, impegni, affinché tutto fosse sopportabile. Poi, tutto è saltato. Ora rimane la tragedia, ma soprattutto rimane l’incapacità da parte di tutti noi di risolverla nei modi più giusti e meno dolorosi.
La nostra società era stata inventata con regole e normative quasi adatte per tutti. Nel frattempo la stessa società si è autodistrutta, attratta per un verso da un benessere artificiale, per un altro verso fantasticando su percorsi di vita, dentro i quali la parola: fatica, dolore, disgrazie, non godevano di una posizione prevedibile accettabile e superabile.
L’egoismo, poi, solo in parte giustificato, ha lasciato la gente sola e malamente “assistita”. Ora mettendo in carcere Pietro, aggiungiamo un dolore in più ed eseguiamo una legge che pesa più della storia di ognuno di noi. Cosa fare?
Il padrone di Pietro, invece, è pronto a rimetterlo sulla ruspa. Ma Pietro ce la farà? E la giustizia troverà il modo per farglielo fare? E la gente, che è tanto pia il giorno dopo, come capirebbe sui tempi lunghi soluzioni di questo tipo?

Don Antonio Mazzi