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  Io  non vivo seduto sulle cattedre universitarie, non faccio terapie specialistiche  e, tanto meno, chiedo soldi. Vivo “in strada”, cioè vivo tra gli adolescenti  ventiquattro ore su ventiquattro. E vi garantisco che non sono né un padreterno  e, tanto meno, un deficiente, ma i veri suicidi spiazzano sempre tutti perché  non offrono il minimo segnale, a meno che non partiamo dalla solita litania  della società sbilenca, dai genitori sbagliati, dalla scuola e della droga.
  Non  ci dicevano niente le statistiche che calavano dal Nord e dal Giappone (solo  per offrire qualche piccola occasione a chi mi legge)? I nostri giovani più  hanno e più sono esposti a questo dramma. Perché non è la disperazione che  uccide ma tutto il resto, soprattutto tutto quello che non è disperazione,  tutto quello che non è troppo.
  Perché  il troppo apre, spalanca le fauci della bestia che ci portiamo dentro. La  pancia una volta piena, volere o no, ti obbliga a mollare. Ma i desideri  sgangherati, il vuoto lasciato dal non tutto, da quel qualcosa che ti riempiva  l’anima che non avevi. È quella “cosa lì” che ti spinge all’assurdo.
  È  vero, ci sono poi, i suicidi drammatici, voluti per cause che conosciamo. Ma  non tra gli adolescenti. Sono i suicidi degli adolescenti, dei quali io mi  sento molto più competente degli illuminati, che ti stravolgono.
  Improvvisi,  nel momento meno immaginabile, mai giustificabili, oppure giustificati con due  righe due su un pezzetto di carta. “Ero stufo”, “Non mi piacevo”, “Scusatemi”.  Poi arrivano i genitori distrutti, gli insegnanti spaventati, i compagni  stravolti.
  Parliamo  sempre delle compagnie sbagliate, di anfetamine, dell’alcool, di tutto quello  che volete. Ma per qualcuno la vera compagna coccolata, preparata, sognata nel  mistero più totale, è lei: la morte.
  Una  mattina un ragazzo nelle prime file di un teatro pieno di liceali, mentre  parlavo, mi guardava intensamente, quasi sorridendo. Non capivo né il sorriso,  né il suo sguardo così intenso, quasi incollato alla mia faccia. Parlavo da più  di un’ora.
  Finito  l’incontro me lo sono preso sotto il braccio e, giocando in contropiede: “Cosa  stai pensando?”. Mi fissò, stavolta senza sorriso: “Hai indovinato!”. Battuto  un cinque, ci siamo rivisti ed è passato il temporale. La causa: tutto e…  tutto. Non posso dire “niente”. Per un adolescente è tutto quello che per  adulti bolliamo come niente, cretinata, paranoia. Sta qui il grave peccato di  noi grandi!
                                    
                                    Don Antonio Mazzi