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									È fuori dubbio che dentro Michele  convivessero malesseri incrociati, esplosi, dopo lunga sofferenza, a causa  del precariato professionale, ma che non finiscono lì. Pare che oggi esista una  dimensione della vita dove conta la praticità a scapito dei talenti, e un’altra  dimensione della vita che insulta i sogni, che sbeffeggia le ambizioni e che  permette a malapena di sopravvivere nel grigiore di una normalità paranoica.
									Peccato  che, dentro la tragedia di Michele, non emerga nemmeno un brandello di cielo e  che la dialettica tra morte e vita sia dilaniata da uno scetticismo difficile  da arginare e da interpretare. Potremmo  tentare una chiave di lettura, oltre a quella politica, introducendo un  tema emergente e dilaniante: la solitudine nella quale lasciamo i nostri  giovani.
									Sono  troppe le lettere e le e-mail che mi arrivano che sottolineano in modo talvolta  drammatico, la solitudine nella quale “dimentichiamo” i nostri figli. Qualcuno  arriva, per questo motivo, fino ad odiare suo padre.
									Vorrei tanto sbagliarmi, ma vedo un Michele  solo, disperato, ciclopico, lottare contro il male, l’ingiustizia, la libertà,  il diritto di essere “anormale”. Io non conosco la storia del trentenne.  Ricavo le mie impressioni dalla lettera, meglio ancora dal macigno che ci ha  scaraventato. Smettiamola di far commedie e diamoci una regolata urgente.
									Perché  se metto vicino questo suicidio alle vergognose banalità che i personaggi  politici vanno quotidianamente regalandoci, mi viene il vomito e sobbalza  dentro di me la strana voglia di mettermi davanti al Palazzo delle divisioni  psichiatriche e inventarmi una sorta di personaggio alla Pannella, meno  fumatore ma molto più irriverente.
                                    
                                    Don Antonio Mazzi